1917, corri Will, corri…

1917 3

Lo so che qualcuno tra i critici ha sparato a zero su 1917, contestando le nominations agli Oscar…ma per una volta non sono d’accordo con loro. Io il film l’ho amato, eccome.  Perchè Sam Mendes (regista teatrale di nascita che è riuscito a fare alcuni dei film più belli degli ultimi anni, compreso lo 007 della rinascita, Skyfall) è riuscito ad emozionarmi con quello che viene considerato spesso un esercizio di stile, ovvero il piano sequenza. In ogni minuto del film. Fino al finale (che non spoilero), in ognuno di quei minuti, io sono rimasta dentro lo schermo. Una storia semplice e già vista al cinema: la coppia di soldati con la missione impossibile, consegnare un ordine e salvare la vita di centinaia di commilitoni. Ma siamo nel 1917, in un’Europa resa terra di nessuno dalla Prima Guerra Mondiale, ferita da chilometri di trincee. E’ lì che vediamo i due soldati Blake e Schofield (Dean-Charles Chapman e George MacKay) sudare, camminare nel fango, nel sangue, con lo sguardo atterrito, attraversare le macerie, spesso correndo. E noi con loro…

1917

1917 è un film di guerra, un film di azione, dove si parla più che sparare, dove le emozioni, la paura, l’assurdità della guerra ci viene ricordata ad ogni inquadratura. Alcune magnifiche, non a caso alla macchina da presa Mendes ha scelto il migliore, quel Roger Deakins che forse si porterà a casa l’ennesima statuetta, la notte del 9 febbraio . Meritandosele tutte. Un film a colori, ma colori coperti dalla polvere e dalla stanchezza di quei soldati che come Forrest Gump sono costretti a correre per vivere. E per far vivere.

Il film è dedicato al nonno di Sam Mendes, dai cui racconti il regista dice di aver tratto ispirazione non per la vicenda ma per lo spirito che permeava quei soldati. E per una volta mi è sembrato che l’uso della tecnica, e anche quello che poteva essere uno sfoggio virtuosistico del regista, ovvero la scelta di girare tutto in sequenza, senza tagli, sia utile allo scopo, ovvero a rendere quello spirito e le emozioni. Siamo con Blake e Schofield dal primo all’ultimo momento, non li molliamo mai. Perchè Roger Deakins non li molla, e noi con lui.

1917 2

E c’è un’altra cosa che ho amato di 1917, che dal 23 gennaio trovate al cinema. Sam Mendes, come provano i ruoli di contorno, i cameo all’inizio e alla fine del film, avrebbe potuto lavorare con chiunque. Ma ha scelto due ragazzi che conoscevamo…ma non tanto da distrarci dalla loro azione sul campo. Blake è il Dean Charles Chapman conosciuto ne Il trono di Spade, Schofield è George Mackey, il magnifico figlio adolescente di Viggo Mortensen in Capitan Fantastic. Un contadino e un borghese, due ventenni che hanno perso amici e sogni in trincea, ma ancora con una profonda etica del proprio dovere.

A consegnargli il messaggio cruciale del film, da recapitare oltre le linee nemiche, è Colin Firth, ad aspettarlo c’è Benedict Cumberbatch, sulla strada Mark Strong e Richard Madden. Una unica donna, quasi per caso, sul loro cammino.

Trincee, ideali, follia della guerra, cast nel quale spunta una unica donna e per pochi minuti…certo, anche a me viene in mente Orizzonti di Gloria. E credo che nessun regista possa avvicinarsi a quel mondo senza pensare a Kubrick. Ma credo che 1917 sia un film europeo, e non tanto per le location e per gli attori, della miglior scuola britannica, per il modo in cui ha raccontato gli uomini e i loro sentimenti.

Rieccoci, Jo…

women

Si, rieccoci…a più di due anni dall’ultimo post (ma qualche volta la vita reale strappa quella virtuale).

Si torna, con Jo. March naturalmente (ne esistono altre?).

Esce a gennaio un nuovo Piccole Donne al cinema (se continuate a leggere, sappiate che lo spoiler è in agguato), ma che non somiglia a niente di quel che avete già visto. Dimenticatevi Wynone e Rossani Brazzi…stavolta alla regia c’è Greta Gerwig e tutto cambia. Per tornare all’origine. Tornare all’origine perchè il libro di Louise May Alcott è rispettato in pieno.  La mia Jo l’ho ritrovata sin dalla prima scena, in una corsa scatenata, capelli al vento e mani macchiate di inchiostro. Jo è energia pura, e Saoirse Ronan (che adoro dai tempi di Amabili resti) anche. Ci sono i colori, le liti, gli abbracci, la sorellanza che vince su tutto, lo spirito di sacrificio, l’America della guerra civile, la povertà e la ricchezza. Il mondo di Piccole donne c’è. Quello che ha accompagnato i pomeriggi delle baby boomers.

Essere una ragazzina negli anni ’60 voleva dire innamorarsi di Jo, odiare Amy la smorfiosa (Florence Pugh), piangere per Beth (Eliza Scanlon) e ammirare Meg (Emma Watson), che forse però somigliava un po’ troppo alle nostre mamme. Era Jo il faro. E anche il motivo per cui tante di noi hanno potuto pensare che la scrittura fosse un modo per vivere e per raccontarsi. E Greta Gerwig – la prima donna a dirigere la storia delle sorelle March- mi ha restituito, per la prima volta sul grande schermo, quelle emozioni. Anche se Amy la smorfiosa qui diventa Amy la saggia. E’ lei a rivelare a Laurie (Timothee Chamalet, che è un Laurie un po’ diverso dai miei ricordi letterari, come il Friederich di Louis Garrell, nel libro più anziano e opaco. Ma gli uomini nella vita delle Piccole Donne sono comprimari), è Amy a pronunciare un discorsetto che fa più o meno “il matrimonio è un accordo economico. Come donna non posso mantenermi da me, non posso lavorare, e quando faccio figli, saranno di mio marito, del quale porteranno il nome”. Parole che avrebbero potuto pronunciare anche mia nonna, mia madre, mia zia. Le donne di quelle case degli anni ’60 in cui sugli scaffali c’era “L’enciclopedia della donna”. E le lezioni di applicazioni tecnica a scuola erano differenziate. Alle ragazzine toccava cucire presine. Archeologia? No, l’Italia a cavallo del ’68. Quella in cui leggevamo Piccole Donne. E ci innamoravamo di Jo, alla quale perdonavamo tutto, tranne quel rifiuto a Laurie. Ci voleva Greta Gerwig, a tirare fuori i ricordi, con quel discorsetto di Amy. Che restituisce alle sorelle March la forza femminista (non è una parolaccia) prorompente che hanno sempre avuto. Il resto del film….è la conseguenza di questo, anche le variazioni che Gerwig ha impresso alla storia, ma che dovete scoprire al cinema.

 

Solo tre parole…

Non so perchè mi è piaciuto tanto Sole Cuore Amore. E provo a ragionarci su…

E’ vero, il cinema di Daniele Vicari mi piace. E’ diretto, spigoloso, qualche volta scomodo, e spesso ti mostra quello che non vogliamo vedere. Insomma il cinema di Vicari è come Daniele, che poi gira anche benissimo. E fa tutto con passione totale. Qualche anno fa abbiamo passato una giornata a parlare di giustizia, di botte, di voglia di cambiare il mondo e di chi l’ha fermata con i manganelli, parlavamo di Genova ma eravamo a Bucarest, dove aveva ricostruito il set di Diaz, il film che -finora- lo aveva più legato alla lezione dei grandi del cinema civile che tanto ama. E che amiamo.

sole-cuore-amore-1-3

Finora. Perchè credo che la storia di Eli (si, lo so che le sono due le protagoniste del film, ma Eli e il suo cappottino rosso sono il magnete di Sole Cuore Amore, per me), la storia di Eli- dicevo- è quella di una combattente, come i ragazzi di Genova. E’ la loro sorella meno politicizzata, che nella periferia ha pensato che poteva farcela, che tutto non era cosi nero. Ha pensato che poteva farcela anche con un figlio. E ne sono arrivati quattro (e senza le campagne della Lorenzin). Eli che ha pensato che questo Paese le permettesse di avere un lavoro decente, da ape operaia, che le permettesse di crescerli quei figli, senza diventare una schiava. E con la speranza, magari, che facciano una vita migliore della sua. Un Paese che le permettesse di stare male, senza perderlo quel lavoro. Pensava di vivere in un Paese civile insomma.

Rieccola la parola chiave, civile.

In mano ad un mestierante made in Usa, questa storia sarebbe diventata stucchevole e lacrimosa, ma Vicari è un autore. Ha qualcosa da dire e con dice con passione e rabbia.

Si, da Sole Cuore Amore sono uscita arrabbiata e felice. Perchè l’Italia non è una commedia. E’ un Paese dove vivono ragazzi diversi dai loro padri (come Il Padre d’Italia di Fabio Mollo dice bene), in cui dovremmo riconoscerci tra uguali e trattarci meglio (come Amelio dice perfettamente ne La Tenerezza). E dove si fatica ogni giorno, ogni santo giorno, solo per arrivare alla sveglia dell’alba del giorno dopo.

Andare al cinema e trovarci il Paese dove vivi. Ecco, ora lo so perchè Sole Cuore Amore mi è piaciuto tanto.

 

Cosi lontano, cosi vicino…

Il cinema mi ha portato in luoghi che mai avrei immaginato di vedere. E non parlo soltanto dei film, grazie ai quali ho viaggiato come tutti, da spettatrice. Parlo di luoghi vicini ma lontani per il comune spettatore (Montee des Marches e dintorni), e di quelli lontanissimi ma dove ritrovare un’umanità vicina, vicinissima.

Negli ultimi sei mesi mi è capitato due volte. A Tondo, sulla più grande discarica di Manila, la Happyland dove sono arrivata viaggiando dietro ad una piccola carovana di cinema italiano (quella del Moviemov), e qui, a Mumbai, dove siamo venuti con il sodale Riccardo Ghilardi per capire qualcosa di un mondo a parte come il cinema indiano. (Un viaggio partito da un tavolino di Firenze e dall’incontro con Selvaggia Velo, il motore del River to River Festival, senza il cui aiuto…saremmo ancora a Roma).

Siamo arrivati a Mumbai, dunque. E a Dharavi, sulle tracce di The Millionaire, che veniva girato qui (più o meno) una decina di anni fa. Il titolo originario di quel film di Danny Boyle, britannico con l’intenzione di aver capito l’India, come tanti altri suoi connazionali prima di lui, era Slumdog Millionaire. E la slum del titolo era questa, una distesa dove vivono più di un milione di persone, nel centro esatto di Mumbai, eppure volutamente invisibile per la Mumbai ricca e borghese. Tranne che in periodo di elezioni, visto che in India chi va a votare sono proprio i più poveri.

20170321_110911

Abbiamo trascorso una giornata intera a Dharavi e non pretendiamo certo di averla capita. Ma abbiamo avuto delle buone guide. I ragazzi che si sono trasformati in guide nella loro comunità, che qui vivono e che con Reality Tours (perchè si può viaggiare anche in modo etico…) riescono a supportare i progetti Educational di Reality Gives, la ONG nella quale abbiamo trovato- ed è stata una fantastica sorpresa- anche tanti volti italiani. Bea, Leti, Luana, ragazze venute per restare un anno e che sono in India da due, tre, dieci anni. Grazie a loro Dharavi ci ha aperto le porte, le porte delle case, dei vicoli stretti, delle botteghe. L’impressione di entrare in un formicaio di attività continue ed infinite. Ci sono 10mila piccole aziende a Dharavi. Tutti lavorano. La pelle e l’alluminio, in condizioni difficilissime, la plastica, che riciclano dai rifiuti di questa gigantesca città da 20 milioni di abitanti. Dietro ad ogni finestra una macchina da cucire, perchè c’è sempre un sari da aggiustare per la vicina. Ragazzi che ci circondano uscendo dalle scuole e che non resistono alla vista di una macchina fotografica e di un paio di occidentali: domande a raffica, e se gli adulti alla parola Italia pensano con un sorriso a Sonia Ghandi, per i ragazzini è sinonimo di Ferrari e di Venezia (niente calcio, qui i sogni sportivi sono legati al cricket).

20170321_123553

La cosa più difficile di provare a raccontare un posto come questo, città nella città, è evitare la retorica. L’immondizia? C’è. Gli scarichi a cielo aperto? Si. I ragazzini a piedi nudi? Anche. Ma se vi devo dire che cosa mi sono portata a casa da una giornata a Dharavi, sono le persone che abbiamo incontrato. La comunità. Che c’è. E vince. Nessuna delle persone che abbiamo incontrato vuole andarsene. I ragazzi che si sposano, restano lì. E chi se ne è andato, torna. Perchè? Perchè vivere in altre zone di Mumbai con quello che guadagnano è impossibile, e perchè a Dharavi hanno un lavoro e la protezione della comunità. Sono tornata a casa con cento storie nella testa e la convinzione, ancora una volta, che per capire qualcosa, solo qualcosa, del pianeta India, bisogna dimenticarci di tutti i riferimenti che abbiamo imparato, i nostri standard non significano niente qui. E davanti alle donne, agli uomini e ai ragazzi di questa città nella città, bisogna presentarsi con umiltà, per capire senza giudicare.

Ah, per la cronaca nessuno qui ha visto The millionaire. Ci sono una cinquantina di cinema house a Dharavi. E Bollywood (non Hollywood) rules.

 

Fratelli d’Italia….

Maro’. Parola che abbiamo connesso all’India negli ultimi anni, vicenda sulla quale ci siamo spaccati (almeno io, con chi sventolava tricolori offesi da chissà chi). Una storia nella quale tutti hanno perso un po’ la faccia, secondo me. Ma non è di questo che vi raccontiamo, piuttosto la cronaca di una strana serata italiana nel più bello e prestigioso hotel di Mumbai, il Taj Mahal Palace (si, quello che arriverà al cinema nei prossimi mesi come Hotel Mumbai, lo stesso oggetto degli attacchi terroristici di qualche anno fa). Di fronte ad un mare bellissimo ma inavvicinabile per gli scarichi inquinanti della città da 20 milioni di abitanti. Qui va in scena la nostra Festa nazionale, in questo 17 marzo. Un anniversario che a casa non celebriamo ma che qui stasera assume un significato forte, di occasione per stringersi la mano..

20170317_190853

Da cinque anni (ed ecco spuntare i marò), non c’erano occasioni ufficiali di incontro tra la comunità italiana e il governo di Mumbai, che invece stasera c’è. Ci sono i due inni nazionali, ci sono le donne italiane in sari in segno di rispetto (indossato con l’aiuto di mani indiane, perchè sfido chiunque a saperlo fare, anche dopo il tutorial di youtube) e c’è una comunità di italiani che qui vive, e lo ha fatto anche in questi ultimi anni difficili. Sono centinaia le aziende che non solo esportano, ma producono qui. Per fare un esempio, la Ferrero produce qui anche la Nutella (e al solo pronunciare il suo nome parte l’applauso nella sala), ma poi ci sono le case dei ricchi indiani che importano mobili italiani, che sul loro naso ci sono occhiali italiani (e non solo Luxottica ma anche i piccoli artigiani). Che le cantine venete mandano qui i loro vini, che chiusa quella maledetta storia (alla quale si allude senza neanche nominarli, i marò) il dialogo è ripreso, cominciando dall’economia. E il più piccolo dei numeri indiani, è qualcosa di gigantesco per noi. Insomma, chiacchierando in giro tra un riso indiano e una polenta con ossobuco (buffet bi-partizan) si scopre la Grande Bellezza qui è il lavoro. Un video racconta gli stereotipi che ci riguardano (pizza, amore etc etc), dietro i quali ci sono delle qualità preziose. E viste da qui ci fanno dimenticare (per 45 secondi) quanto quelle qualità che raccontiamo siano messe a dura prova da un Paese che spesso non se le merita. Ma la lontananza attutisce gli spigoli, e l’Italia e gli italiani sembrano più belli. Forse se impareremo a usare una lente senza stereotipi e pregiudizi per guardare questo Paese immenso, che cambia ogni giorno, potremmo capire di più anche loro. Per il momento chi lavora qui si arrende, ai ritmi, alla lingua, ai tempi…anche prendere un appuntamento in India ha un suo codice. Ma quale pianeta con ha il suo?

 

Looking for cinema in Mumbai…

Mumbai è una città infinita. 16 milioni di abitanti, che diventano una ventina con i sobborghi. Lunga e stretta lungo il mare, sul quale è stato costruito un lungo ponte, il Sea Link, per accorciare di una mezz’ora i tempi di percorrenza da nord a sud. Ponte a pedaggio, e quindi il problema non è stato eliminato. Tutta questa premessa non perchè ci hanno assunto a Google Maps, ma per spiegarvi lo sconcerto di dover organizzare un programma tenendo conto…di qualcosa che non avevamo considerato. Bollywood vive al nord, nei quartieri fuori dalla città storica, più vicino a Film City, in zone più residenziali, Bandra West, Juhu…E attori, attrici, registi che magari ci hanno messo degli anni per affrancarsi dalle zone più povere verso sud…non hanno alcuna intenzione di tornarci per incontrare noi. Che invece abbiamo preso il nostro solito trenino e siamo andati in missione al sud….

 

cinema bollywood

Ed eccoli, nel quartiere a luci rosse, spuntano i grandi manifesti che fino a pochi anni fa erano dipinti a mano, e non sono porno. Sono quelli di vecchie sale dalle pareti ricoperte dei volti che qui tutti conoscono, la lingua ufficiale in un Paese che ne ha decine. Chiediamo di poter entrare, sono guardinghi i vecchi custodi, ma alla fine ci fanno da guida. In qualche caso vietandoci però di fotografare. E ci raccontano di sale che funzionano da cento anni, di poltroncine di pelle restaurate e mai sostituite..ci sono anche due o tre sale di epoca art decò delle quale è rimasta solo la facciata in stile, su un cubo di cemento di multisala. Ma ci sono anche le sale uniche da più di 1100 posti, che vanno avanti anche se ogni tanto “ci sono venti persone. I ragazzi vedono i film sul telefonino, ci racconta il signore che ci accompagna tra la platea e l’immensa galleria. E la galleria è più cara, le poltrone sono rosse invece che nere, ogni fila con un largo spazio..comode insomma.liberty

La camminata chilometrica sotto il sole a picco si conclude al Chor Bazaar, “il mercato dei ladri”, a due passi dalla Moschea, dove si può trovare qualunque cosa. E dove ci hanno detto che si possono trovare memorie del cinema classico indiano. Due telefonate e un paio di appuntamenti volanti dopo, siamo in un negozio piccolissimo, dove si entra praticamente uno per volta, e dove tra foto di Marylin e vecchi calendari troviamo riproduzioni di quei mitici manifesti pubblicitari che venivano dipinti a mano.

me manifesti

Ce li vende un ragazzo, il padre lavorava a Bollywood come decoratore oggi lui vende quel che resta di un cinema che non c’è più. O forse no…tra i manifesti pubblicitari spunta Jackie Shroff, l’eroe macho del cinema anni 80 e 90, ancora in attività e anzi…padre d’arte, visto che che il figlio Tiger è su tutte le copertine del momento. Siamo appena andati a trovarlo nella sua casa bellissima e molto lontana da qui, da qui e dalla slum dove è nato. Ma questa è un’altra storia, per un altro racconto….

 

Any given Saturday…in Mumbai

Ecco, tanto per cominciare, dimenticatevi la settimana corta. A Bollywood, se si gira, si gira. E per di più in una location che dire lontano dalla nostra, a due passi dalla spiaggia di Juhu…non rende l’idea.

Eccoci dunque un sabato mattina (dopo qualche decina di messaggi con assistenti di ogni tipo) in viaggio verso la stazione di Vasai Road, estremo nord di una città che è una striscia lunghissima lungo l’Oceano indiano. Per intenderci, dal centro nord di Juhu alla parte sud, con i resti coloniali, parliamo di un paio di ore di macchina nella rush hour. E quindi eccoci su un treno, verso il set di Munni Michael il film bollywoodiano che seguiremo oggi, su invito del suo protagonista. Nawazzudin Siddequi, che qui non riesce a camminare nei corridoi dell’albergo dove ci ha dato appuntamento.

Il ragazzo è una star da queste parti, noi l’abbiamo visto in un gioiellino che si chiamava The Lunchbox e più recentemente in Lion (del quale tutti ricordano Dev Patel, che per sua stessa ammissione è stato in India solo 3 volte nella vita, per girare altrettanti film in cui interpreta un indiano).

Si va dunque, dal finestrino i villaggi di baracche lungo i binari, sul treno- in prima classe, quella consigliata per i turisti- anche tanti ragazzi indiani vestiti all’occidentale e che guardano sul telefonino Jack Reacher.

Le due Indie…cosi vicine, cosi lontane.

La seconda classe fitta fitta di umanità, poi i vagoni solo per donne, quelli per i portatori di handicap…quando ci si prepara a scendere, si deve cedere il passo prima a chi entra.

Quando si esce dalla città le baracche diventano palazzi di cemento e grate che chiudono i balconi, sulle costruzioni messe peggio, le impalcature per le ristrutturazioni, rigorosamente in bambù, dove si arrampicano gli operai al lavoro.

Dopo il treno, un’altra mezz’ora di tuk tuk , parte dei quali contromano in autostrada (dedicato agli amici che…”ma a che ti serve un driver in India, affitta la macchina e vai, no?”). E anche questa è India..per arrivare alla cattedrale nel deserto: un hotel di lusso che in questa commedia sentimentale (un bel triangolo amoroso non si nega a nessuno in un cinema che vive di amori contrastati) è gestito dal nostro eroe del giorno.

17126954_355811508146575_4267975909035737088_n

Il resto della giornata è presto detta. Perchè i set sono uguali in ogni parte del mondo. Ovvero sono noiosi. Otto ore di scene con lunghe pause in mezzo, e un corri corri di truccatori e sarti. A noi- ospiti dell’attore star- solo gentilezze e gran sorrisi, ma a nessuno è venuto in mente di avvertire il regista, sempre al monitor. Si parla in hindi, ma action e cut si dicono come a Hollywood. E alla fine, dopo il tramonto, le scenografie solitarie sembrano quelle di un post matrimonio. Restano un po di luci, per fortuna, se no il prode Ghilardi avrebbe tentato il suicidio al momento degli scatti migliori.

 

 

Qui comincia l’avventura….

Ashwarya Rai sul cruscotto di un’auto. E’ cominciata da lì L’insana curiosità e passione per Bollywood e il cinema indiano. Una decina di anni dopo quel primo viaggio in India, per la prima volta arriviamo a Mumbai, la Hollywood dell’est del mondo che per il cinema produce il doppio di quanto fanno in USA. Io e il fido Ghilardi, coinvolto dall’ idea di raccontare un mondo sconosciuto ai più e forse dall idea di cercare qualcosa che ancora ci stupisca. Un pianeta, l’India. E bollywood è solo parte di quel cinema indiano che ogni tanto fa capolino nei festival, ma che è rarità la nelle nostre sale.
Un pianeta, quello del cinema indiano, che produce più di mille film l’anno e che se ne frega, in termini di mercato, dell occidente e di Hollywood. Attori i cui nomi noi riusciamo difficilmente a pronunciare, sono trattati come divinità. Se riusciremo a spiegarci tutto questo, non so. Di certo è che 3 settimane a Bombay, anzi a Mumbai, sono comunque da raccontare…e quindi se vi andrà, la cronaca semiseria di quello che incontreremo…la troverete qui.

Quelle ragazzine attirate nella rete….

 

C’è un film che ho visto in questi giorni a Locarno, che non mi lascia.

Sono andata a vederlo attirata dal tema, dalle voci del Festival che parlavano di un film sulle “donne dell’Isis”, argomento caldo e che mi interessa. Ma El ciel attendra si è rivelato anche qualcosa d’altro.

le ciel 2

 

E’ la storia di un paio di ragazzine parigine, attirate da Daesh attraverso il web, fino a spingerle a lasciare la famiglia ed avventurarsi verso il confine siriano. Storie che i giornali a ben vedere ci hanno raccontato in questi ultimi anni, ma che come sempre il cinema ci permette di comprendere ad un livello più alto. Perchè a quei nomi dà un volto, perchè ci permette di spiare nelle camere di adolescenti che si trasformano sotto gli occhi dei genitori inconsapevoli. E dal film di Marie Castille Mention Schaar si esce scioccati, con la consapevolezza che solo la fortuna forse ci ha salvato dall’essere coinvolti in storie cosi.

Le ciel attendra è basato sul lavoro di  Dounia Bouzar, una donna della quale ignoravo l’esistenza e che ho scoperto fare un lavoro incredibile. Nel film appare nel ruolo di se stessa, mentre parla con genitori sconvolti dei rischi per i loro figli, di come saper riconoscere i segnali che qualcosa non va, che l’Isis sta entrando nelle loro case senza che se ne accorgano..Lei è musulmana, e si troverà a “rieducare” quei ragazzini arrabbiati che la trattano da “infedele”, mentre spiega ai loro genitori che quei cambiamenti di umore e di comportamento dei figli potrebbero non essere solo da attribuire a quell’età infame (e parlo per memoria personale) che è l’adolescenza. Una fase in cui si è più esposti, in cui ci sembra di portare il peso del mondo sulle proprie spalle, e basta un dolore che ci sembra più inconcepibile di altri (nel film alla giovane Melanie muore l’amata nonna) perchè qualcuno bene organizzatoci possa convincerci di qualunque cosa. Anche di poter salvare la nostra famiglia  intraprendendo una via di sacrificio e di purezza. O magari perchè una voce lontana e sicura, un “principe azzurro” cosi diverso dai nostri compagni di classe, comincia a raccontarci che qualcosa di alternativo al nostro Occidente c’è. E ci si vive meglio, perchè si è nel giusto.

le ciel

Vi sembra incomprensibile? Io per tutto il film ho provato a guardare a questa storia senza preconcetti, senza risposte in tasca. Quelle risposte che ho cercato di darmi, leggendo negli ultimi due anni di bombe e kalashnikov per le strade amate di Parigi, Londra, Nizza, Bruxelles…Chi ha agito non è “l’altro”. Sono uomini e donne nate e cresciuti qui. Quanto dovevano odiare noi e il nostro modo di vivere? Quanto dovevano odiare le loro famiglie? Ecco, un film mi ha fatto ripensare a tutto questo, forse c’erano segnali che non abbiamo saputo cogliere, prima che si arrivasse al sangue…E Daesh si insinua con abilità innegabile lì dove siamo meno attenti, tra le persone più vulnerabili, che  si sentono sole anche senza esserlo.

Le ciel attendra esce il 5 ottobre in Francia, e secondo me ne sentiremo parlare ancora.

Io intanto continuo a pensarci.

 

 

 

Appunti da Locarno…

20160803_211817

Sono una neofita del Festival di Locarno. Solo alla mia seconda edizione su 69. Ho fatto sempre un po’ di resistenza per motivi molto basic: la collocazione nella prima metà di agosto (ebbene si, quella settimana a ridosso di Ferragosto, in cui ci vogliamo sentire in ferie anche se tecnicamente le ferie non ce le concede nessuno..), la location lacustre che mi mette un po’ di ansia sin da ragazzina….insomma, motivi personali e decisamente poco professionali…

Poi la proposta di condurre da Locarno Hollywood Party mi ha fatto capitolare. E meno male…Credo che la Piazza Grande e le sue proiezioni su quell’immenso schermo, valgano il viaggio. E poi ho scoperto che Locarno se ne infischia delle leggi non scritte di un festival, come quella di cercare la mediazione tra il pop e l’autoriale. E che quindi si vedono film che probabilmente altrove non incontreresti mai…

E se c’è da provocare il pubblico, eccoli qua…La mia prima serata inaugurale con l’avvertenza agli spettatori di scene a rischio…The girl with all the gifts è l’horror di Colm McCarthy che Locarno ha scelto per aprire. Un horror apocalittico, con la Gran Bretagna invasa dai non morti, dagli zombie. E c’è addirittura una seconda generazione di “affamati”, bambini cannibali, messi sotto tutela dell’esercito che li usa per studiare un vaccino che salvi la razza umana. Tutto nasce da un racconto breve di Mike Carey, scrittore britannico che ad ogni intervento qui a Locarno si scusa per il voto dei suoi connazionali sulla Brexit (stessa cosa sottolinea lo scozzese Douglas Gordon, prendendo le distanze dal voto referendario). E nel cast ci sono Paddy Considine, Glenn Close e Gemma Arterton (che riesce ad essere intrigante anche in mimetica), anche se qui sotto la vedete “in borghese”, alla conferenza stampa…

20160803_160128

Voi direte…un altro horror? Altri zombies? Non ci bastavano quelli degli ultimi 40 anni al cinema e i morti viventi della tv? Eppure, The girl with all the gifts ha un elemento di inquietudine (e di riflessione) in più: i protagonisti, i “cattivi”, i nemici…sono bambini. E tutti i discorsi metaforici che generalmente accompagnano la visione dei morti viventi al cinema, come simbolo di una diversità con la quale fare i conti, assumono contorni ancora meno netti. Si, è vero, le scene forti in questo film ci sono. Ma non sono gli assalti degli zombie adulti, bensì quei ragazzini che digrignano i denti, che attaccano alla giugulare, che vann0 a caccia di gatti…E che poi, come ogni bambino che si rispetti, cercano qualcuno che gli racconti delle fiabe.

Mike Carey ci ha raccontato che il mondo che abbiamo, quello che alza barriere e muri sempre più alti, che vive nella paura, è stato l’ispirazione per la storia di questo film. Io, lasciando a notte fonda la Piazza Grande, pensavo che ancora una volta dobbiamo sperare in un mondo salvato dai ragazzini. Anche se zombies.